L’ipocondria non è semplicemente paura della malattia. È un linguaggio del corpo che precede la parola, una forma di pensiero incarnato che chiede ascolto.
Il corpo ipocondriaco non si limita a segnalare una preoccupazione per la salute, ma, in un contesto sessuologico, sembra mettere in atto un rifiuto profondo del desiderio e dell’erotismo. Si tratta di un corpo che si sottrae all’incontro, che si protegge da un contatto vissuto come eccessivo, invasivo, perturbante. Un corpo che smette di essere scenario di vitalità per diventare territorio di sorveglianza e controllo.
Sin dalle prime formulazioni freudiane, il legame tra corporeità, desiderio e sintomo è al centro del pensiero psicoanalitico. In Introduzione al narcisismo (1914), Freud interpreta l’ipocondria come una forma di ritiro della libido dagli oggetti esterni, un disinvestimento che non comporta una perdita della carica pulsionale, ma il suo riversamento sul corpo stesso. Il corpo ipocondriaco, quindi, non è un corpo privo di libido, ma un corpo saturato di un desiderio che non riesce a trovare espressione simbolica e che si manifesta come preoccupazione, dolore o allarme.
L’approccio di Joyce McDougall (Teatri del corpo, 1989) approfondisce questa prospettiva, osservando come alcuni soggetti utilizzino il corpo come unico mezzo per esprimere affetti, angosce e fantasie erotiche non pensabili. In questa visione, il corpo diventa una sorta di palcoscenico su cui si rappresentano scenari inconsci: ciò che non può essere detto, si sente; ciò che non può essere desiderato, si ammala.
L’ipocondria può così essere pensata come una formazione di compromesso tra un desiderio che si affaccia e una struttura psichica che non riesce a sostenerlo. La trasformazione del corpo erotico in corpo clinico rappresenta una strategia difensiva: ridurre il corpo a oggetto biologico, da esaminare e controllare, permette di negare la sua dimensione pulsionale e relazionale. La medicalizzazione della corporeità agisce quindi come una sorta di sterilizzazione simbolica, che neutralizza il rischio dell’eccesso sensoriale ed emotivo.
L’erotismo, con la sua carica di apertura, alterità e vulnerabilità, viene vissuto come fonte di pericolo. In questa luce, il timore del contagio, della penetrazione, della contaminazione non sono che maschere dell’angoscia generata dall’incontro con l’Altro e con il desiderio. Il corpo ipocondriaco può così funzionare come barriera protettiva: se è malato, non può essere toccato; se è fragile, non può essere invaso; se è costantemente monitorato, non può essere abitato eroticamente.
Questa dinamica difensiva si accompagna spesso a un bisogno di controllo che investe tanto la corporeità quanto la vita emotiva. La vigilanza continua sul corpo impedisce qualsiasi abbandono, qualsiasi oscillazione libidica. Il piacere, in quanto esperienza di perdita di controllo, viene bandito a favore di un costante stato di allerta. Il risultato non è la sicurezza, ma una forma di anestesia emotiva ed erotica: si vive nel corpo, ma senza abitarlo pienamente; si sente, ma solo il dolore.
André Green (Il lavoro del negativo, 1993) ha esplorato in profondità queste configurazioni psichiche, descrivendo soggetti che rimuovono il desiderio attraverso un’opera di evacuazione e sterilizzazione del campo mentale. In tali strutture, la negatività si manifesta come assenza: non un rifiuto esplicito del desiderio, ma la sua dissoluzione silenziosa. Il corpo resta, ma è svuotato di tensione erotica; il soggetto sopravvive, ma non gode.
A questo quadro si aggiunge il peso delle costruzioni culturali del corpo e del desiderio. I ruoli di genere, le aspettative sociali e le narrazioni familiari contribuiscono a modellare la relazione con la corporeità fin dall’infanzia. In molti contesti, il corpo – soprattutto quello femminile – viene educato alla passività, alla modestia, alla vergogna. Il piacere viene spesso percepito come inappropriato, e il desiderio come pericoloso. In questa prospettiva, la sorveglianza ipocondriaca può costituire una modalità di sottomissione agli ideali normativi: un corpo che si ammala è un corpo che non desidera, e quindi non trasgredisce.
Anche nella soggettività maschile si riscontrano dinamiche simili, seppure con sfumature diverse: la vulnerabilità, la dipendenza affettiva e la passività erotica sono spesso vissute come incompatibili con l’identità virile dominante.
L’ipocondria può quindi offrire una via “accettabile” per manifestare fragilità, attraverso un linguaggio che mantiene il conflitto fuori dal campo simbolico e sessuale.
L’ipocondria, dunque, non è riducibile ad una semplice fobia della malattia ma rappresenta piuttosto una complessa strategia difensiva contro il desiderio, il piacere e l’incontro con l’alterità. È una forma di “negazione erotica”, che trasforma il corpo in un oggetto clinico per proteggerlo dalla sua dimensione pulsionale.
Ripensare il corpo ipocondriaco come corpo erotico – come corpo che sente, desidera e si relaziona – significa restituire al soggetto la possibilità di un’esperienza incarnata, vitale, non minacciosa. Solo così il corpo può tornare a essere spazio di espressione e non solo di allarme.
Tirocinante: Caterina Borrelli
Tutor: Maurizio Leuzzi
BIBLIOGRAFIA
Freud, S. (1914). Introduzione al narcisismo.
Green, A. (1996). Il lavoro del negativo. Borla.
McDougall, J. (2008). Teatri del corpo: Un approcio psicoanalitico ai distrurbi psicosomatici. Raffaello Cortina.