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Avete mai sentito il termine feticismo razziale? Si tratta di una forma di apprezzamento ambigua per uomini e donne che presentano caratteristiche etniche particolari come il colore della pelle, i capelli, la forma degli occhi, che richiamano lo stereotipo negativo di un determinato popolo. Pensiamo a quelle frasi comprendenti sia pseudo complimenti come «impazzisco per gli uomini di colore», «le giapponesi sono sexy», «le latino-americane sono incredibilmente formose» ma anche assunzioni del tipo «ma come non ti piace ballare? Sei latino!», o maliziose aspettative fondate unicamente sulla nazionalità dell’altro. Dietro a tali affermazioni è potente e radicato il retaggio razzista. Ci sono secoli e secoli di razzismo nel feticismo razziale, che è di fatto una perpetuazione degli stereotipi.

Nell’immaginario collettivo, soprattutto italiano, influenzato da un determinato modo di rappresentare le relazioni amorose che riguardano le persone nere, si tende a eliminare qualsiasi pensiero inerente alla sfera sentimentale ed emotiva di queste ultime. Il fatto di immaginare una persona nera innamorata e capace di provare dei sentimenti, o di avere una personalità, viene rimpiazzato da un’idea che si focalizza principalmente sugli stereotipi e i pregiudizi che riguardano il loro corpo e il sesso. Questo deriva sia dai retaggi coloniali di epoca fascista applicati ai corpi delle persone nere, in particolare il corpo delle donne, sia dal tipo di rappresentazione mediatica che negli anni si è voluta dare a queste persone.

La feticizzazione del corpo nero femminile è il risultato di un retaggio coloniale durato secoli attuato in America e in Europa. Negli Stati Uniti le donne nere che venivano schiavizzate e sfruttate nei campi da lavoro dai padroni bianchi, venivano ripetutamente stuprate e utilizzate come schiave sessuali. Quando questi ultimi venivano sorpresi dalle loro mogli bianche, la colpa ricadeva sulla donna nera stuprata, poiché li aveva sedotti. Le mogli erano spaventate all’idea che i mariti le potessero tradire per colpa delle donne nere, senza avere gli strumenti per capire che il problema era il potere machista e razzista. All’idea di inferiorità razziale si aggiungeva anche il ruolo imposto di oggetto sessuale per le donne, utili solo per sfogare le violenze e le frustrazioni sessuali dei loro padroni. Anche gli uomini neri venivano estremamente sessualizzati: venivano visti come animali feroci plusdotati che da un momento all’altro avrebbero stuprato le mogli bianche dei padroni. Si arrivava perfino a insinuare che in determinati Paesi stuprare fosse una pratica culturalmente accettata; altri chiamavano in causa la genetica, soprattutto verso gli uomini provenienti dall’Africa Sub-Sahariana, i quali sarebbero innatamente attratti dalle donne bianche italiane. Donne che, il più delle volte, erano definite nostre, come se potessero essere proprietà esclusiva di qualcuno.

Una visione distorta rafforzata anche dalla retorica dei partiti di estrema destra in cui il white power è uno dei pilastri.  Il potere bianco chiamato anche supremazia bianca o suprematismo bianco, è un movimento ideologico basato sull’idea generale che gli uomini bianchi siano superiori agli altri gruppi etnici. Il termine è talvolta utilizzato per descrivere l’influenza che hanno personalità bianche nella scena politica e sociale globale.

I valori primari di questo movimento sono il razzismo, l’identitarismo, il razzialismo e l’etnocentrismo, volte all’egemonia della razza bianca su quella nera e su tutte le altre.  I fascisti italiani, nelle colonie in Nord Africa, si appropriavano dei corpi delle donne nere, chiamate sciarmutte o madame. La sciarmutta era la versione italianizzata di una parola araba, ossia, sharm ta (prostituta), la madama era invece colei che coabitava con il proprio padrone. Queste relazioni venivano raccontate come svago per gli italiani colonizzatori, possedere una madama era un lusso, un bottino di guerra. Non mancava la diffusione di souvenir fotografici, in cui le protagoniste venivano chiamate Veneri Nere: ossia donne africane nude fotografate in pose sensuali. Questa tipologia di foto contribuì a creare un immaginario occidentale esotizzante di una maggior predisposizione sessuale delle donne africane a prostituirsi. In questo senso è fondamentale il concetto di decolonizzazione che non dovrebbe indicare solamente il processo per cui i Paesi si liberano dei coloni occidentali, bensì dovrebbe essere un processo che deve includere anche la decolonizzazione della percezione che gli altri hanno dei corpi altrui. Tale lavoro di decostruzione può avvenire anche tramite la rappresentazione delle persone nere nei media e, in quest’ultimo caso, anche l’Italia ha incluso persone nere nei vari spot pubblicitari o film italiani. Tuttavia è necessario analizzare in che modo è stato fatto e se davvero siano serviti a rompere con la percezione coloniale che si aveva in passato. La storia di Sarah Baartman, conosciuta anche come Sarah Saartjie è un esempio di completa disumanizzazione della donna nera.

Baartman era una donna di origine sudafricana che nell’800 venne esibita come fenomeno da baraccone nei più famosi Freak Show d’Europa. La sua caratteristica era quella di avere un fondoschiena di grandi dimensioni, fuori dalla norma, e dato che, all’epoca, ciò veniva visto come qualcosa di straordinario e affascinante da osservare e da possedere, il suo padrone decise di guadagnarci sopra con diversi spettacoli. Chi assisteva a questi spettacoli, chiedeva perfino di poter abusare di lei in spettacoli privati. Oggi, il problema legato alle grandi e anormali dimensioni del fondoschiena di Baartman, verrebbe definito come steatopigia, ossia un problema legato alla lordosi lombare, quindi di grasso che si accumula principalmente nella zona inferiore del corpo. Ma è chiaro che allora non se ne conosceva la causa, e Baartman veniva denigrata in questi spettacoli disumani.

Il macabro spettacolo durò anche dopo la sua morte, dato che il suo corpo venne sezionato: parti del suo cervello, il suo scheletro e i suoi genitali vennero tenuti come oggetti da esposizione nel Museo dell’Uomo, a Parigi. Era l’epoca della nascita del così chiamato razzismo scientifico. I suoi resti rimasero in esposizione fino al 1974 per poi essere mandati in Sud Africa, per volere di Nelson Mandela, dove verranno seppelliti ad Hankey solo nel 2002. Negli anni ‘70 divenne famosa una donna italiana di origine eritrea di nome Zeudi Araya che veniva scelta principalmente per film erotici o per film in cui interpretava l’oggetto esotico del desiderio di un uomo bianco. Nel 1972 uscì La ragazza dalla pelle di luna di Luigi Scattini. Questo film fu la rampa di lancio per Zeudi Araya, in cui interpreta una ragazza di nome Simoa che vive nelle Seychelles e diventa una rovina famiglie perché seduce Alberto, un uomo bianco e borghese.

In Il Signor Robinson (1976), Paolo Villaggio interpreta una versione moderna e ironica di Robinson Crusoe, mentre Araya interpreta Venerdì, una giovane selvaggia. Tra i due nasce una bizzarra storia d’amore ma non mancano i riferimenti, specie all’inizio, alla lussuria innata delle donne nere: infatti, nel primo incontro tra Robinson e l’indigena avviene una specie di inseguimento in cui lui cerca di catturarla come preda. In un dialogo tra i due protagonisti, Robinson dice: Sai dalle mie parti ce ne sono tante di ragazze come te […] non così attraenti. Vengono da noi, fanno mezzo servizio e molte anche stanno a servizio completo. Hai capito che cosa vuol dire con servizio completo? Bella cosciona nera…, concludendo il tutto molestandola. Quasi tutti i ruoli interpretati da Araya hanno questo tipo di trama e contesto, quindi non risulta affatto che ci sia una discontinuità rispetto alla percezione che molti anni prima si aveva delle abissine: belle, esotiche, seducenti e pronte a soddisfare l’uomo bianco.

I ruoli di Araya sono quindi limitati a fare la parte della donna nera che induce gli uomini bianchi e sposati in tentazione – e per cui veniva incolpata l’amante, più che l’uomo sposato. In un documentario realizzato da Fred Kuwornu, regista italo-ghanese, dal titolo Blaxploitalian-100 Years of Blackness in Italian Cinema 60’ USA-ITALY (2016), una ricerca sui ruoli proposti agli attori e alle attrici nere nell’Italia di oggi, queste ultime hanno affermato che poco è cambiato rispetto agli anni ‘70: ancora prostitute o domestiche. E se da un lato, su Netflix, film come Summer – time o Zero hanno tentato di ribaltare questo tipo di immaginario, rappresentando persone nere senza stereotipi di questo genere, nella realtà di tutti i giorni la pelle nera viene ancora percepita come qualcosa di esotico e da conquistare.

La donna nera viene percepita quasi sempre come maliziosa, costantemente vogliosa e aggressiva. Le viene chiesto se preferisce i peni bianchi o quelli neri, dando quindi per scontato che abbia chissà quanti rapporti sessuali. Il porno ha giocato un ruolo fondamentale nella categorizzazione delle donne, viste come oggetti da inserire in determinati compartimenti: le redhead, le milf, le latinas, e poi le ebony. Nei vari tentativi di approccio, è insolito l’utilizzo di frasi frasi come: ‘’ io adoro le ebony ‘’ (o le asiatiche, o qualunque altra etnia), per attirare l’attenzione di una donna nera. Non ci si presenta, non si saluta, il punto non è la donna come persona ma la pelle che ricopre il suo corpo. La pelle nera è stata discriminata, feticizzata, sessualizzata, bombardata di pregiudizi, tuttavia rimane l’involucro con cui la donna nera si presenta e questo non può cambiare. L’unica cosa che può, e deve, cambiare è la percezione che ne hanno gli altri.

 

Tirocinante: Ilaria Labarile

Tutor: Cristiana Sardellitti

 

BIBLIOGRAFIA

https://it.euronews.com/2017/08/14/chi-sono-i-suprematisti-bianchi

https://oizaqueensday.medium.com/la-mia-pelle-e-un-fetish-fafa4d70669

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