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Il film Hildegart, La vergine rossa (2024) della regista Paula Ortiz si colloca tra il biopic storico e il dramma psicologico, raccontando la tragica vicenda di Hildegart Rodríguez Carballeira, prodigio intellettuale e attivista femminista della Spagna repubblicana, uccisa a soli 18 anni dalla madre, Aurora Rodríguez Carballeira. Attraverso una regia intensa e un’estetica austera, il film si distingue per la sua capacità di fondere rigore storico e introspezione psicoanalitica, offrendo una riflessione inquietante sul confine tra amore e possesso, educazione e controllo, utopia e fanatismo.
Hildegart Rodríguez Carballeira fu infatti un’intellettuale precoce, capace di scrivere saggi rivoluzionari sulla sessualità e i diritti delle donne già nell’infanzia. Il film mette in evidenza il contrasto tra la sua produzione teorica e la sua vita privata, dominata dalla madre Aurora, che concepì la figlia come un “progetto umano” perfetto, destinato a cambiare il mondo. La figura di Hildegart incarnava un femminismo progressista, basato sulla necessità di educare le donne alla consapevolezza del proprio corpo e della propria sessualità. Il film mostra il suo impegno per la contraccezione e la liberazione dai tabù religiosi, ma evidenzia anche il suo paradosso esistenziale: mentre Hildegart promuoveva il diritto alla libertà sessuale, nella sua vita privata non riuscì mai a esercitarlo pienamente, oppressa dalla sorveglianza costante della madre.
Aurora Rodríguez è la figura centrale del film, un personaggio complesso e disturbante. Intellettuale autodidatta, convinta di poter “creare” un essere umano superiore attraverso un’educazione rigorosa, incarna un tipo di fanatismo che oscilla tra il genio e la follia. La sua visione del femminismo è estrema, radicale, sfociando quasi in una misandria paranoica: considera gli uomini esseri inferiori e ritiene che solo le donne possano portare avanti il progresso umano.
Il film esplora magistralmente la simbiosi materna patologica, concetto studiato da psicoanalisti come Melanie Klein e Donald Winnicott.
Uno degli aspetti più inquietanti del film è proprio il riferimento all’eugenetica, una teoria pseudo-scientifica diffusa nei primi del Novecento, secondo cui era possibile migliorare la razza umana attraverso la selezione genetica e l’educazione. Aurora crede fermamente in questa idea e vede Hildegart come il primo passo verso un’umanità nuova, libera dalle “imperfezioni” morali e intellettuali. Questo porta a riflettere sui pericoli dell’ingegneria sociale e sulle implicazioni etiche del tentativo di “progettare” la perfezione.
Aurora non concepisce inoltre Hildegart come una persona indipendente, ma come un’estensione della propria volontà. Il dramma si intensifica quando Hildegart tenta di emanciparsi: per Aurora, la libertà della figlia rappresenta il fallimento del suo “esperimento”, e l’unica soluzione diventa la distruzione dell’opera stessa.
Il film sottolinea il conflitto tra il pensiero progressista di Hildegart e la sua realtà personale. Pur scrivendo saggi sulla libertà sessuale, vive in un ambiente che le nega qualsiasi esperienza affettiva autentica. La madre controlla ogni suo contatto con gli uomini, temendo che una relazione possa “corrompere” il suo progetto perfetto. Questo tema è di straordinaria attualità: molte donne, ancora oggi, si trovano a combattere contro una società che impone loro modelli contraddittori di purezza e libertà, controllo e emancipazione.
Uno degli aspetti più delicati del film è il rapporto tra Hildegart e Abel Velilla, un giovane socialista con cui la ragazza inizia a intrattenere una relazione epistolare e, successivamente, incontri segreti. Abel rappresenta per Hildegart la possibilità di un’affettività autentica, un contatto con il mondo esterno che non sia filtrato dalla madre. Nel film, le loro conversazioni sono cariche di tensione emotiva: Hildegart si mostra curiosa e affascinata dall’intimità, ma allo stesso tempo frenata dal controllo materno.
Aurora percepisce immediatamente Abel come una minaccia: la presenza di un uomo nella vita della figlia è il primo segnale che il suo “progetto perfetto” sta sfuggendo di mano. Il film enfatizza come ogni tentativo di Hildegart di vivere un’esperienza personale venga sistematicamente distrutto dalla madre, che la manipola emotivamente facendole credere che l’amore sia una debolezza e che gli uomini siano solo strumenti di oppressione.
In una scena particolarmente intensa, Hildegart confessa ad Abel il suo desiderio di libertà ma anche la paura paralizzante nei confronti della madre. Il loro rapporto, appena sbocciato, viene brutalmente reciso da Aurora, che intercetta le lettere, fa incarcerare il ragazzo e minaccia la figlia con un crescendo di violenza psicologica. Questo episodio segna il punto di rottura definitivo: la consapevolezza di Hildegart di dover fuggire, e la decisione di Aurora di impedirglielo a ogni costo.
L’amore negato tra Hildegart e Abel è dunque uno degli snodi fondamentali del film: non solo simbolo della lotta tra libertà e oppressione, ma anche la prova definitiva che Hildegart, nonostante il condizionamento materno, fosse pronta a scegliere la propria strada. Una scelta che, purtroppo, le verrà crudelmente negata.
Il climax tragico del film – l’omicidio di Hildegart da parte della madre – non è solo un gesto di follia, ma l’inevitabile esito di un rapporto malato. Aurora, incapace di accettare la ribellione della figlia, preferisce distruggerla piuttosto che vederla vivere indipendentemente. Questo porta a una riflessione più ampia sulla violenza come forma di controllo e sulla maternità come strumento di potere.
Hildegart, La vergine rossa è dunque un film potente, che lascia lo spettatore con interrogativi profondi. Racconta la storia di una giovane donna che cercò di liberarsi dai vincoli imposti dalla società e dalla propria famiglia, ma che finì vittima del fanatismo materno. Con una narrazione intensa e un’interpretazione straordinaria, il film non solo rende giustizia alla figura di Hildegart, ma invita a riflettere sul confine tra educazione e manipolazione, tra femminismo e misandria, tra amore e controllo ossessivo.

Caterina Borrelli

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